Italia 2012
76 minuti
Nel teatro all’interno del carcere romano di Rebibbia si conclude la rappresentazione del “Giulio Cesare” di Shakespeare. I detenuti/attori fanno rientro nelle loro celle. Sei mesi prima: il direttore del carcere espone il progetto teatrale dell’anno ai detenuti che intendono partecipare. Seguono i provini nel corso dei quali si chiede ad ogni aspirante attore di declinare le proprie generalità con due modalità emotive diverse. Completata la selezione si procede con l’assegnazione dei ruoli chiedendo ad ognuno di imparare la parte nel proprio dialetto di origine. Progressivamente il “Giulio Cesare” shakesperiano prende corpo.
I fratelli Taviani erano certamente consapevoli delle numerose testimonianze, in gran parte documentaristiche, che anche in Italia hanno mostrato a chi non ha mai messo piede in un carcere come il teatro rappresenti un strumento principe per il percorso di reinserimento del detenuto.
Ogni detenuto ‘sente’ e dice le battute come se sgorgassero dal suo intimo così che (ad esempio) Giovanni Arcuri è se stesso e Cesare al contempo e la presenza del regista Cavalli e dell’ex detenuto e ora attore Striano nel ruolo di Bruto non stonano nel contesto. Ciò che purtroppo diventa dissonante (anche se non inficia alle radici il valore dell’operazione) è la pretesa di far ‘dire di sé’ ai detenuti. Nei momenti in cui dovrebbero uscire dalla parte per rientrare in se stessi si avverte che è proprio allora che stanno recitando un copione che parla delle loro tensioni o delle loro attese. La ricerca della verità nella finzione si trasforma in finzione che pretende di palesare delle verità. Non era necessario. Shakespeare aveva già splendidamente ottenuto il risultato