Il ragazzo con la bicicletta di Jean-Pierre e Luc Dardenne

Belgio, Francia, Italia, 2011

87 minuti

Cyril ha dodici anni, una bicicletta e un padre insensibile che non lo vuole più. ‘Parcheggiato’ in un centro di accoglienza per l’infanzia e affidato alle cure dei suoi assistenti, Cyril non ci sta e ostinato ingaggia una battaglia personale contro il mondo e contro quel genitore immaturo che ha provato ‘a darlo via’ insieme alla sua bicicletta. Durante l’ennesima fuga incontra e ‘sceglie’ per sé Samantha, una parrucchiera dolce e sensibile che accetta di occuparsi di lui nel fine settimana. La convivenza non sarà facile, Cyril fa a botte con i coetanei, si fa reclutare da un bullo del quartiere, finisce nei guai con la legge e ferisce nel cuore e al braccio Samantha. Ma in sella alla bicicletta e a colpi di pedali Cyril (ri)troverà la strada di casa.
Dalla prima inquadratura il piccolo protagonista de Il ragazzo con la bicicletta infila quella precisa traiettoria che seguivano prima di lui l’adolescente di La promesse, la Rosetta del film omonimo, il padre falegname de Il figlio e ancora il giovane disorientato de L’Enfant. Dentro a una corsa possibile verso una soluzione che arriverà, i Dardenne rinnovano l’interesse per l’infanzia incompresa, che tiene testa e non si assoggetta al mondo degli adulti, fronteggiandolo con improvvise fughe e un linguaggio impudente. Di nuovo è la fragile pesantezza dell’essere, che condizionava (già) le azioni dei protagonisti precedenti, il centro del film. Dopo il tentativo di rinnovamento formale e prospettico del loro cinema (Il matrimonio di Lorna), i fratelli belgi ritrovano la cinetica e un personaggio che avanza negli spazi attraversati e nel proprio destino. Come nel Matrimonio di Lorna sarà l’irruzione di un improvviso atto d’amore a travolgere, fino ad annullare, l’indifferenza di un padre colpevole di abbandono e dello sbandamento emotivo del figlio.
Thomas Doret incarna con lirismo lo spirito gaio e selvaggio dei mistons di Truffaut, di cui riproduce i comportamenti anarchici e antiautoritari negli esterni e in mancanza di interni domestici e familiari adeguati. Cyril, figlio ripudiato con gli anni in tasca, resiste a muso duro al vuoto affettivo che lo circonda, pedalando dentro e attraverso la paura, intestardendosi nel silenzio o facendo il diavolo a quattro. Il reale per il fanciullo è sempre in agguato ma ad esso si oppone ‘aggrappandosi’ e stringendosi forte a una figura femminile bella e raggiungibile come una mamma. Cécile de France, sopravvissuta allo tsunami di Clint Eastwood, è il volto e il corpo che Cyril vuole per sé, la figura materna che pretende e a cui si concede. La loro relazione procede per tentativi ed errori, come ogni processo di apprendimento, producendo una passeggiata a due ruote di grande forza espressiva e creativa. Una promenade che risana lo scarto dell’essere stati generati senza essere stati appropriatamente allevati, ma prima ancora desiderati. Samantha e il suo negozio di coiffeur diventano allora l’ancora di salvezza e il riscatto sociale per quel ‘ragazzo selvaggio’, sempre fiero, sempre contro. Se come sosteneva Luigi Comencini mettersi al livello dell’infanzia è l’unico modo per liberarla, i Dardenne accreditano e ribadiscono la sua affermazione, accompagnando la corsa di Cyril verso una raggiunta consapevolezza e un nuovo elemento: l’amore  (Marzia Gandolfi, su www.mymovies.it).

Verrebbe da pensare che due così siano inseparabili, abituati a condividere riflessioni e lavoro, esperienze di vita, set e amicizie, sconfitte e trionfi. Lui,  Jean-Pierre, è il fratello più grande. Ha i capelli bianchi, gli occhi di un profondo blu, le mani sempre in movimento. Ha l’aria rilassata e ride spesso, informale anche a Cannes, con una polo grigia senza fronzoli, la fede al dito, un piccolo orologio al braccio mollemente abbandonato sulla spalla del fratello. L’altro, più serio, è Luc. Il suo sguardo è sfuggente, parla meno volentieri, ascolta immobile e rimugina: sembra parecchio più giovane e tormentato di Jean-Pierre, insaccato in un completo grigio che ne incupisce il volto. Tra i due fratelli belgi, per la quinta volta in concorso a Cannes dopo due Palme d’oro (per  Rosetta e L’enfant), ci sono solo tre anni di differenza e un’incredibile affinità intellettuale, che va molto oltre le apparenti disparità caratteriali. Insieme hanno scritto e diretto Il ragazzo con la bicicletta, il film che a concorso inoltrato resiste ancora in vetta alle preferenze dei critici, invulnerabile all’attacco della corazzata Malick: «Ogni volta che torniamo al festival è un’esperienza fantastica, solo Cannes ti riempie così tanto di adrenalina» dice Jean-Pierre. «Cannes ha fatto la nostra storia», sospira brevemente Luc.