USA 2018.
128 minuti.
Anni 70. Ron Stallworth, poliziotto afroamericano di Colorado Springs, deve indagare come infiltrato sui movimenti di protesta black. Ma Ron ha un’altra idea per il suo futuro: spacciarsi per bianco razzista e infiltrarsi nel Ku Klux Klan. Come spettatori oggi siamo abituati a essere spiazzati e depistati, tra cambi di registro e rimescolamenti di generi. Il merito è anche di Spike Lee e di una carriera gestita, pur tra altissimi e bassissimi, mantenendo un elevato livello di temerarietà e iconoclastia. ‘BlacKkKlansman’ dimostra, ancora una volta, come ci sia bisogno di Lee nel cinema e nella società contemporanea. Ovvero di una voce lucida e cinica, che sappia generare potenti affreschi di puro entertainment e iniettare al loro interno elementi spuri, destinati a sovvertirne la natura. Un lavoro su commissione, lo script firmato da David Rabinowitz, Charlie Wachtel e Kevin Wilmott, e pensato per Jordan Peele, regista-rivelazione di ‘Scappa – Get Out’. Come fu per ‘Inside Man’, Lee si mette al servizio della sceneggiatura altrui, ma con una sostanziale differenza: il tema qui è talmente vicino alla poetica di Lee da rendere impossibile una separazione netta tra autore e semplice professionista. E infatti Lee contamina, fa suo il plot: ne conserva il potenziale commerciale ma lo trasforma in una bomba cromatica, che mescola blaxploitation anni 70 e
contestazione delle Pantere Nere, razzismo interno alla polizia e caricatura di un Male che è chaplinianamente ridicolo prima ancora di essere terrificante. A David Duke e ai membri del Ku Klux Klan non viene concessa l’austera dignità di un villain: restano caricaturali oggetti di scherno, fantocci di un potere antico, di cui rappresentano l’elemento più istintivo e ferino. Lee non ha mai amato la blaxploitation e la sua natura ambigua, né ha mai mancato di sottolinearlo. Ma ‘Blackkklansman’ – come già ‘La 25a ora’ per gli irlandesi di New York o ‘SOS Summer of Sam’ per il punk nascente – è l’ulteriore dimostrazione di come il regista americano ami addentrarsi in territori apparentemente lontani dal proprio per dimostrare di conoscerli appieno, fino al più inatteso riferimento culturale. Dove invece tutto quadra è nell’epilogo, che spezza il ritmo e cambia la natura di un film costruito sull’ironia e sulle radici del male, trasportandolo all’urgenza di un presente che merita un’immediata presa di coscienza. Le grezze immagini dei suprematisti bianchi comunicano l’amarezza di un esito non preventivato: c’era dell’ingenuità in chi seguiva le parole di Stokey Carmichael? Forse. Ma come si è giunti da lì a questo presente? Come sottolineato da James Baldwin e Raoul Peck in ‘I Am Not Your Negro’, il cinema ha giocato un ruolo decisivo nella costruzione di una cultura della segregazione. Là erano i bianchissimi ballerini di Stanley Donen, qui la visione del mondo offerta da ‘Nascita di una nazione’ prima e da ‘Via col vento’ poi. Forse restano solo le lacrime, come canta Prince nello struggente gospel postumo che domina i titoli di coda di ‘BlacKkKlansman’: ma Spike Lee sceglie, coraggiosamente, le risate di scherno e il loro sottovalutato potere.
Recensione di Alessandro Cafieri tratta da “Conflitti – Rivista di ricerca e formazione psicopedagogica” (www.cppp.it/conflitti)