USA 1995
102 min.
“«Uomo morto in marcia», grida uno dei carnefici che, in Dead Man Walking, portano Matthew a morire. Da dove viene il cinismo di parole che informano della sua stessa morte un uomo ancor vivo, che la anticipano ai suoi stessi orecchi, come se fosse già avvenuta? Da dove viene la loro volgarità promossa a rito? Tim Robbins non dà risposta a queste domande, e neppure le formula esplicitamente. Niente è nel suo film “esplicito”. Se così non fosse, non si tratterebbe che d’un manifesto contro la pena di morte. […]” (Roberto Escobar, Il Sole-24 Ore)
“«Dead man walking» (il titolo significa “morto che cammina”, come viene annunciato nelle prigioni il passaggio del condannato verso la cella dell’esecuzione) appartiene alla categoria dei film importanti – quelli che toccano un tema scottante, sollecitano una discussione, provocano, forse, dei mutamenti – più che alla categoria del grande cinema. Sotto la bella, plumbea confezione che gli ha dato Tim Robbins il film ha qualche magagna, che forse però risalta maggiormente a occhio cinefilo ed europeo. Troppi finali, troppi ritorni sulla ricostruzione del doppio delitto per cui Patrick Sonnier viene condannato alla pena capitale, troppi nobili slanci. Perché un conto è leggere l’asciutta descrizione dei gesti e delle parole della pietà nel libro da cui il film è tratto (Dead Man Walking, Condannato a morte, di sister Helen Prejean). Un conto è vedere la pur bravissima Susan Sarandon, nel ruolo di sister Helen – colei che si è battuta come un leone a favore di Sonnier per salvargli la vita o per lo meno l’anima – tendere una mano verso il vetro che la divide dalla saletta in cui si sta perpetrando l’assassinio legale del suo protetto quasi a volerlo raggiungere.
Ma questi piccoli eccessi non tolgono nulla al potenziale polemico del film né all’efficacia dei due ritratti a confronto del condannato e del suo angelo protettore: Sonnier è arrogante, odioso e brutale come il suo crimine, sister Helen è tenace, appassionata, senza incertezze di sorta circa l’ingiustizia della legge. Per chi non condivida una visione confessionale della morale e della giustizia, i valori religiosi e il sentimento cristiano che sottendono l’etica di Dead Man Walking risulteranno probabilmente in-soddisfacenti. Esiste un sentimento laico del perdono (o quantomeno un rifiuto laico alla logica dell’”occhio per occhio”) che Robbins non prende neanche lontanamente in considerazione. Se ne capiscono anche le ragioni, e non solo perché il film nasce dall’esperienza vera di sister Helen (anche se il caso Sonnier nel libro è solo un prologo, una presa di coscienza per una battaglia molto più lunga da lei condotta): l’America è un paese profondamente religioso e bisognoso di religione, e la va dell’etica deve passare con il soave licore della fede. (È anche un paese evidentemente insensibile ai paradossi: come quello secondo cui le morti per condanna capitale vengono calcolate nelle statistiche tra le morti per omicidio: se questa non è auto-critica…)
La direzione di Tim Robbins è sostenuta dalle eccellenti interpretazioni di un bravo Sean Penn odioso e ambiguo e di Susan Sarandon, che affronta impavidamente la cinepresa a faccia nuda di trucco e si dimostra l’attrice sensibilissima di sempre. Ma il cuore del film è contenuto nei quindici minuti del prefinale: un’agghiacciante registrazione delle nude e semplici procedure dell’esecuzione, che in Louisiana avviene per iniezione. I rituali meticolosi, burocratici, medici, di questo omicidio di stato parlano da soli.”
(Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996)