Danimarca, Germania 2015
101 minuti
E’ al cinema in questi giorni un film di grande potenza, “Land of Mine” di Martin Zandvliet, che regala l’occasione di conoscere una pagina di Storia per lo più inedita, riguardante una violazione della Convenzione di Ginevra del ’29 di cui si macchiarono i danesi al termine della Seconda Guerra Mondiale.
Migliaia di prigionieri di guerra tedeschi, quasi tutti ragazzini che Hitler aveva chiamato alle armi nell’ultima stagione del conflitto, vennero deportati sulle coste della Danimarca e lì obbligati a disinnescare un milione e mezzo di mine antiuomo. Gli ordigni in questione erano stati disseminati dai nazisti in previsione di uno sbarco alleato. Il film si concentra su un gruppo di quattordici di questi malcapitati, cui sono destinate 45.000 mine da rendere inoffensive. Solo a lavoro ultimato è previsto che sarà loro concesso di tornare in patria. A supervisionarli durante le operazioni quotidiane c’è il sergente danese Carl Rasmussen (Roland Moller), un sadico che non fa nulla per celare la rabbia e il disprezzo che nutre per ciò che questi giovani rappresentano. Quando però, inevitabilmente, il numero dei sottoposti inizia ad assottigliarsi, l’uomo dimentica l’avversione per il nemico e comincia a provare compassione e istinto di protezione nei confronti dei suoi fragili e giovanissimi prigionieri.
La trama coincide quasi per intero col soggetto del film, non ci sono molti sviluppi, anche se non mancano alcuni colpi di scena legati, come è intuibile, ad esplosioni accidentali. Siamo in una pellicola dalla regia impeccabile e dalla splendida fotografia, in cui tutto si consuma in un unico spazio scenico: il lembo di spiaggia racchiuso tra una baracca e il mare. E’ in questo microcosmo che degli adolescenti si trovano a espiare le colpe dell’intero popolo cui appartengono per nascita. Isolati e chiusi a chiave senza cibo, trattati con disumanità in un luogo che parrebbe un incanto di pace e bellezza se solo non sapessimo cosa nasconde sotto la sabbia. I primi piani strettissimi sui volti sofferenti vengono alternati a campi lunghi e ci sono diverse immagini esplicite relative all’inevitabile mattanza cui vanno incontro alcuni dei protagonisti. […]
(Serena Nannelli, articolo completo su Il Giornale, 26 marzo 2016)